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Il legno e i pellet inquinano, ma il pericolo vero è altrove

Di seguito un articolo di Mercalli su legno e pellet e uno di Collet sull’esperienza di Ormea in Piemonte.

Il legno e i pellet inquinano, ma il pericolo vero è altrove

Pianura Padana – Secondo i dati di Arpa e Life PrepAir la combustione di biomasse è responsabile della metà delle polveri sottili al Nord

di Luca Mercalli | 17 Gennaio 2020

Del malsano accumulo di inquinanti nell’aria si parla ogni inverno, quando nei periodi senza pioggia, neve e vento, le emissioni nocive rimangono intrappolate soprattutto in Pianura Padana, chiusa tra Alpi e Appennini. Ossidi di azoto, monossido di carbonio, polveri fini come le PM10 (dal diametro di 10 micron, ovvero 10 millesimi di millimetro), le PM2.5, fino ad arrivare all’ancor più pericoloso particolato ultrafine (meno di un micron) in grado di passare direttamente dall’apparato respiratorio al sangue. Pur in un quadro di generale miglioramento della qualità dell’aria attestato nell’ultimo trentennio dall’Agenzia Europea per l’Ambiente, le città italiane si distinguono per i superamenti del tetto di 35 giorni all’anno con almeno 50 microgrammi di PM10 al metro cubo (una settantina di giorni a Padova e Torino nel 2019 secondo il Sistema Nazionale di Protezione dell’Ambiente).

In questo periodo dall’atmosfera avvelenata si è riaccesa la polemica sulle fonti del particolato, tra chi ritiene inutili le misure di contenimento del traffico e chi le restrizioni nell’utilizzo di stufe e caminetti. I dati delle Arpa dicono in effetti che gli impianti domestici a biomassa contribuiscono a circa metà della concentrazione media annua di PM10 nell’aria padana, talora oltre nelle zone di provincia in cui il riscaldamento ha un peso maggiore rispetto al traffico.

A Torino, città tra le più inquinate d’Italia, le PM10 da fonti legnose pesano per il 44% della concentrazione media a fronte del 4% del riscaldamento da altri combustibili, poi c’è il 38% dovuto al settore trasporti, il 6% all’industria, e il restante 8% ad altri comparti tra cui l’agricoltura. Le stufe a legna, soprattutto quelle vecchie e inefficienti, dunque inquinano parecchio, ma demonizzarle a priori è eccessivo.

È corretto limitarle nei centri urbani (tollerando i forni a legna delle pizzerie!), mentre in campagna e in montagna – dove peraltro è più difficile avere altre opportunità di riscaldamento – bruciare legna del bosco vicino a casa, in quantità in equilibrio con la crescita degli alberi, è neutrale rispetto alle emissioni che generano il riscaldamento globale: si emette carbonio non di origine fossile, e che viene bilanciato dalla fotosintesi dalle piante in vita. Più controverso l’uso del pellet, prodotto di lavorazioni industriali che in genere viaggia in camion per centinaia di chilometri.

Il modo di scaldarsi a biomassa più problematico per l’ambiente resta tuttavia il caminetto aperto, molto inefficiente poiché privo di regolazione dell’apporto d’aria e abbattimento dei fumi. Interessante l’approccio del comune di Feltre, che incentiva la sostituzione dei vecchi caminetti con modelli nuovi a inserto chiuso e stufe ad alta efficienza, contrassegnate dalla certificazione a stelle “Aria pulita” di Aiel, Associazione italiana energie agroforestali. Ma occorre intervenire anche negli altri ambiti con azioni a lungo termine e la collaborazione tra politica e cittadinanza, ed è ciò che punta a fare il progetto europeo “Life PrepAir” che vede interagire tutte le regioni del Nord Italia.

Alcune idee. Efficientare anche gli impianti termici a fonti fossili e sostituirli se possibile con pompe di calore; coibentare gli edifici per ridurre le esigenze di riscaldamento, interventi sostenuti in Italia da un sistema di ecobonus tra i migliori al mondo, eppure poco conosciuto e utilizzato; limitare l’abbruciamento di potature e sfalci privilegiandone il compostaggio (un solo fuoco di sterpaglie umide può inquinare come centinaia di stufe).

Quanto alla mobilità, oltre all’ormai frusto ma sempre utile invito a preferire i mezzi pubblici, interroghiamoci sul perché ci spostiamo così tanto, e abbattiamo all’origine la necessità di muoversi grazie al telelavoro oggi possibile con le moderne tecnologie, a un’economia e a un turismo a più corto raggio. Laddove non si può fare a meno dell’auto privata, puntare a una mobilità sobria, condivisa ed elettrica, soluzione che – tra incentivi, risparmio su bollo e carburante, diffusione delle colonnine di ricarica e autonomia su distanze ormai superiori a 300 chilometri – inizia a essere concorrenziale, soprattutto se alimentata con l’elettricità fotovoltaica prodotta sul tetto di casa, rispetto alle vetture a motore termico che ci hanno accompagnato per un secolo.

Fatto tutto questo, forse allora potremo guardare con meno sospetto e sensi di colpa la rassicurante fiamma dietro al vetro di un moderno focolare.

 

Un articolo interessante che prova a delineare si una situazione di sfruttamento della montagna ma sotto il diretto controllo pubblico

Ormea si scalda a legna

da dislivelli.eu 8 maggio 2019

Siamo ad Ormea, comune montano dell’Alta Valle Tanaro in Provincia di Cuneo, ultimo avamposto piemontese lungo la Strada Statale 28 che conduce dal basso Piemonte alla Riviera Ligure di Ponente. Circondata dai boschi e da cime che spesso superano i 2000 metri – il Monte Mongioie, seconda cima del gruppo delle Alpi Liguri, arriva a quota 2630 metri – il grosso borgo montano è stato fin dall’ottocento un punto di riferimento come luogo di villeggiatura montana. Oggi se si percorre “La Balconata di Ormea”, tracciato di 40 chilometri di sentieri e mulattiere che attraversano 24 borgate, si incontrano frazioni flagellate dallo spopolamento, a tratti ancora vive, dove talvolta opera un piccolo rifugio, ma soprattutto il bosco che avanza inesorabile, in abbandono dopo secoli in cui aveva dato da mangiare e di che scaldarsi a generazioni di montanari. Mi è capitato di parlare con un anziano ormeese che ha passato tutta la vita su queste montagne; alla domanda del perché ci fossero così tanti grossi alberi lasciati a terra a marcire, mi disse che un loro utilizzo non avrebbe un ritorno economico, che il costo degli operai e dei mezzi sarebbe troppo alto e il trasporto troppo difficoltoso.
E questo è solo in parte vero, perché in questo contesto problematico è riuscita a nascere, alla fine del 2000, “Calore Verde”, una s.r.l. i cui soci sono il Comune di Ormea per l’80% e la società privata Egea di Alba per il restante 20%, costituita allo scopo di fornire alla popolazione locale un servizio di teleriscaldamento, utilizzando le risorse boschive locali. Con la realizzazione della centrale termica a biomasse e della rete di teleriscaldamento gli impianti sono entrati in funzione ad ottobre 2001 e da allora viene fornito calore tutto l’anno alle utenze collegate. Con diversi ampliamenti, nel corso degli anni si è arrivati un’estensione dei tubi che portano calore con acqua calda  capace di servire circa 600 utenze, pari quasi alla metà della popolazione residente nel centro storico di Ormea.

Nel frattempo nel 2003 nasce il Consorzio Forestale “Monte Armetta”, che raccoglie un gran numero di soci proprietari di terreni boschivi alla destra orografica del Tanaro. Ancora un volta il ruolo del comune di Ormea è fondamentale: con una convenzione conferisce al Consorzio la gestione del patrimonio boschivo delle sue aree di proprietà, che sono attualmente il 97% dell’intera superficie boschiva del Consorzio stesso. Con la clausola che l’utile del Consorzio deve essere reinvestito in opere ed interventi aventi come finalità la valorizzazione del patrimonio boschivo. In questo modo il comune di Ormea riesce a gestire il patrimonio boschivo unendo allo sfruttamento a fini produttivi ed energetici del legname ricavato la tutela e valorizzazione ambientale del territorio.

Le attività del Consorzio Forestale e della società che si occupa della gestione della centrale a biomasse vanno quindi di pari passo. Il Sindaco Giorgio Ferraris, sempre in prima linea per la valorizzazione delle risorse locali, spiega: «la società “Calore Verde” acquista il cippato interamente dal Consorzio e dalle piccole aziende della valle, a 6 euro al quintale. Il costo della materia potrebbe essere minore se venisse importata dalle grosse aziende fuori valle, ma in questo modo si sostiene la filiera locale e l’economia della vallata creando posti di lavoro e sinergie tra i vari settori della filiera stessa». Il bilancio della società riesce a mantenersi in attivo, seppur senza grossi margini, e la centrale che produce il calore è controllata dal punto di vista  dell’abbattimento delle emissioni inquinanti.

L’esempio virtuoso di Ormea potrebbe essere un modello per molti altri comuni alpini e appenninici. Anche se, avendo una Scuola Forestale sul proprio territorio, il comune della Valle Tanaro è sicuramente supportato grazie ai corsi specifici per la formare di personale del settore e alla consulenza di professionisti come Piero Bologna, Presidente del Consorzio Forestale Monte Armetta, che ricopre l’incarico di professore presso la Scuola Forestale stessa.
«Abbiamo in progetto di estendere la rete del teleriscaldamento alla zona attorno alla Scuola Forestale, lungo la Statale 28  – conclude Giorgio Ferraris -. Inoltre il Consorzio si sta allargando alla vendita dei pali di castagno per le vigne, un mercato in espansione nelle colline delle Langhe. Infine collaboriamo con alcuni progetti del Dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino e con la locale cooperativa “La volpe e il mirtillo” che gestisce l’accoglienza dei richiedenti asilo, con cui è stato avviato un progetto di riqualificazione dei castagneti a scopo produttivo alimentare». Oggi nel piccolo Comune di Ormea sono stati recuperati 30 ettari di castagneti, un ulteriore tassello per il completamento della filiera del legno dell’Alta Valle Tanaro.
Alessandro Collet